Della lettera di congedo di Raffaele Cantone dalla presidenza dell’Autorità Nazionale Anticorruzione colpisce il breve – ma significativo – inciso “Sento che un ciclo si è definitivamente concluso, anche per il manifestarsi di un diverso approccio culturale nei confronti dell’Anac e del suo ruolo”. Cosa questo esattamente significhi Cantone non lo chiarisce, preferendo soffermarsi sulle motivazioni più personali e professionali che lo hanno portato a interrompere prematuramente la sua esperienza alla guida dell’Autorità.
Non sfugge – a chi abbia una minima confidenza con il nostro sistema politico-amministrativo – come le parole di Cantone malcelino una “polemica insofferenza” verso il mutato clima politico, mostrando come la vexata quaestio della relazione tra ceto politico di governo e burocrazie pubbliche rimanga, ad oggi, irrisolta.
Pur nella sua complessità, la relazione tra politica e amministrazione può essere ricondotta dicotomicamente alla propensione del ceto politico a circondarsi di personale politicamente affidabile al fine di minimizzare il conflitto e massimizzare il rendimento degli uffici in vista dei propri fini oppure alla tendenza da parte della dirigenza burocratica a sottrarsi al controllo della dirigenza politica e a organizzarsi come centro autonomo di potere. Una controversia ormai centenaria – che si ravviva continuamente – e che costituisce un profilo cruciale per comprendere i vizi e le virtù della pubblica amministrazione in Italia (Casini, 2019).
La ricerca di un giusto equilibrio tra questi due opposti orientamenti è sempre stata al centro delle riflessioni sul funzionamento degli apparati pubblici ed anche dei molteplici tentativi di rinnovamento dell’amministrazione attivati nel corso dell’intero periodo unitario (Sepe, Crobe, 2015).
Non a caso, come è noto, la questione fu uno dei punti nodali del percorso di riforma sistemica avviata dell’ultimo decennio del Novecento: le soluzioni normative adottate da un lato modificarono radicalmente la disciplina della dirigenza pubblica, portando a compimento la distinzione di compiti e di ruoli fra direzione politica e direzione amministrativa, dall’altro ampliarono i poteri di nomina fiduciaria dei vertici politici, dentro le amministrazioni e fuori di esse, nei vari bodies in cui fu scomposto l’apparato pubblico (sul tema cfr. Di Mascio, 2012), con l’obiettivo di riportare sotto il circuito democratico e rappresentativo l’apparato burocratico.
I due percorsi, seguiti congiuntamente, diedero vita a un modello, il cd. “spoil system all’italiana”, che rompeva con la tradizione amministrativa del nostro Paese e che – nell’intento del Legislatore – mirava a creare un equilibrio nel conflitto tra istituzioni rappresentative e amministrazione burocratica e a garantire un modello “virtuoso” di controllo politico (Carboni, 2008), nonché al superamento definitivo di quel fenomeno che la letteratura politologica ha – con connotati critici – definito “partitocrazia”.
Alcune condizioni di contesto sembravano – in quel momento – assicurare la transizione verso modelli più̀ collaborativi e il superamento di alcune criticità storiche del sistema politico italiano: l’introduzione di nuovi sistemi elettorali, con l’obiettivo di garantire una alternanza delle forze al governo e una maggiore stabilità del sistema politico; la definizione di una piena responsabilità̀ amministrativa dei dirigenti per favorire l’affermazione di un apparato burocratico professionalmente indipendente e caratterizzato da un alto grado di istituzionalizzazione, legittimazione e autorevolezza.
A distanza di alcuni decenni gli esiti di quelle riforme sembrano tuttavia controversi ed anzi emergono con forza alcuni nodi problematici.
Sul fronte politico-istituzionale, il miraggio maggioritario sembra aver esaurito il suo slancio propositivo. È ben presto venuta meno la forza politica e la compattezza delle compagini governative succedutesi negli ultimi due decenni, venendo meno, conseguentemente, il presupposto di fondo che legittimerebbe un controllo politico degli apparati pubblici, come nell’esperienza statunitense. L’ampliamento dei poteri di nomina fiduciaria del vertice politico ha molto ridimensionato l’autonomia dei vertici amministrativi, liberando, simultaneamente, l’organo politico del peso delle responsabilità (Cassese, 2019).
Simultaneamente, sul fronte puramente amministrativo, gli stessi principi del paradigma manageriale sono messi in discussione e considerati passè (De Vries, Nemec, 2013). In particolare, la ricerca dell’efficienza al di fuori dello Stato centrale – caposaldo del paradigma manageriale – e motivo d’ispirazione del “modello bassanini”[1] anziché semplificare il panorama amministrativo, ha posto non poche difficoltà sul fronte del governo di settori importanti di politiche pubbliche. La creazione di centri decisionali “esterni” all’amministrazione centrale sottoposte alle continue sollecitazioni di governi instabili obbliga l’attività amministrativa a continue frizioni, causando un frazionamento dei processi decisionali.
La (ennesima) fuga dallo Stato ha moltiplicato gli ambiti di rendita della politica sull’amministrazione: il controllo degli apparati statali da parte della politica ha mutato forma in seguito alla modificazione dei confini e delle dimensioni della sfera pubblica, ma sembra rafforzato rispetto alle possibilità̀ di rent-seeking dei partiti politici.
Se il potere dei partiti nella prima repubblica era legato alla parabola espansiva dell’impegno diretto dello Stato nell’economia e nei servizi, a partire dall’ultimo decennio del secolo XX “la crescita delle risorse di potere dei partiti leggeri dipende dal consolidarsi del sistema di multi-level governance, dalle politiche di privatizzazione di enti pubblici, amministrazioni ed agenzie, dalle pratiche di cogestione pubblico-privato di reparti come la sanità, di proliferazione di società di gestione dei servizi privatizzati, dalla espansione incontrollata dei subappalti” (Prospero, 2012).
Gli ambiti di nomina sono molteplici: amministrazione politica, amministrazione diretta, amministrazione indiretta e amministrazioni di garanzia. Il criterio di orientamento rimanda alle ragioni che giustificano la preposizione della nomina: l’amministrazione politica ricomprende quegli uffici a cui si riconosce una intrinseca politicità per la prossimità e il ruolo servente rispetto alla funzione di indirizzo; l’amministrazione diretta mira ad assicurare una relazione collaborativa tra dirigenza politica e dirigenza amministrativa; le nomine nelle amministrazione per enti, società ed organismi vari rispondono all’esigenza di riportare alla responsabilità politica la copertura di uffici dotati di autonomia; nell’ambito dei poteri di garanzia la preposizione per nomina dovrebbe sottrarsi al carattere fiduciario quanto piuttosto accertare l’idoneità alla carica (Endrici, 2000).
Se la narrazione del ciclo di riforme avviato negli anni ’90 ha sostenuto l’ipotesi di un definitivo superamento della commistione che aveva caratterizzato i contatti tra i partiti politici e l’alta burocrazia nella Prima Repubblica, una visione meno ottimistica mostra un quadro in chiaroscuro, rivelando una mera “crisi della prima edizione del regime partitico” (Cavalli, 2001).
Le numerose e sostanziali innovazioni normative dell’ultimo decennio del ‘900 appaiono oggi molto ridimensionate, con una forte contraddizione tra il quadro formale e la persistenza dei fenomeni reali e un conseguente grave indebolimento delle potenzialità̀ espresse da quelle riforme sistemiche, a causa dell’incapacità di definire un modello coerente con il sistema politico e l’ordinamento costituzionale italiano.
Riferimenti:
Casini L. (2019), Politica e amministrazione: «the Italian Style», in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 1
Cassese S., (2019), Che cosa resta dell’amministrazione pubblica?, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 1
Calise, M. (a cura di) (1992), Come cambiano i partiti, Bologna, Il Mulino
Cavalli L., (2001), Il primato della politica nell’Italia del XXI secolo, Padova, Cedam
De Vries, M., Nemec, J., (2013), Public sector reform: an overview of recent literature and research on NPM and alternative paths, in “International Journal of Public Sector Management”, Vol. 26
Di Mascio, F. (2012), Partiti e Stato in Italia. Le nomine pubbliche tra clientelismo e spoils system, Bologna, Il Mulino
Endrici, G. (2000), Il potere di scelta. Le nomine tra politica e amministrazione, Bologna, Il Mulino
Katz, R.S e Mair, P. (1995), How parties organize: change and adaption in party organizations and party democracies, Londom, Sage
Kopecky, P. (a cura di) (2007), Political parties and the State in post-communist Europe, Londra, Routledge
Muller, WC (2006), Party patronage and colonization of the state, in Katz, RS e Crotty, W. (a cura di), Handbook of Party Politics, London, Sage
Raniolo, F. (2000), I partiti conservatori in Europa occidentale, Bologna, Il Mulino
Panebianco, A. (1982), Modelli di partito, Bologna, Il Mulino
Prospero M. (2012), Il
partito politico. Teorie e modelli, Roma, Carocci
[1] “Non si può comprendere la riforma della dirigenza del 1998 se non la si inquadra nel più generale disegno di riforma avviato in quegli anni: al posto di uno Stato invadente, autoritario, centralizzato, burocratico, rigido, inefficiente, la riforma progettò uno Stato più leggero, più flessibile, più decentrato”, così F. Bassanini in Il dibattito sullo “spoils system”. Una risposta a lavoce.info, disponibile su www.lavoce.info, novembre 2002.