Ancora sull’affollamento delle carceri in Italia: verso la giusta direzione?

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La sezione “Diritto UE e Italia” del sito web dell’OSLE ha già affrontato la questione in un breve articolo di circa due anni fa.

Riteniamo utile e importante ritornare sull’argomento in quanto, nonostante una leggera flessione nel numero di detenuti, in Europa le carceri continuano a essere occupate al massimo delle loro capacità. In Italia il problema è particolarmente grave.

 

È stata di recente pubblicata l’edizione 2015 delle statistiche penali annuali del Consiglio d’Europa, frutto di un’analisi elaborata dai ricercatori dell’università di Losanna alla quale hanno partecipato il 96 per cento degli Stati europei. L’obiettivo è quello di raccogliere e analizzare i dati provenienti dai diversi paesi per fornire una dettagliata panoramica sulla popolazione carceraria in Europa.

Uno dei dati di maggiore interesse che emerge dal Rapporto è quello relativo al tasso di detenzione, ossia il numero di detenuti ogni 100mila abitanti: nel 2015 il tasso medio europeo è di 124 detenuti su 100mila abitanti, in leggera diminuzione (7 per cento) rispetto al dato rilevato nel 2013 (134 detenuti).

 

Per quanto riguarda l’Italia, il tasso medio di carcerazione è pari a 89,3 detenuti su 100mila abitanti, inferiore alla media europea e in netto calo (-17,8 per cento) rispetto al 2014, allorché si attestava a quota 107.

Il dato registrato nel 2014 è senz’altro positivo e forse oltre ogni aspettativa, ma non si può comunque trascurare che i valori riportati dal Consiglio d’Europa si riferiscono a una media nazionale: se guardiamo invece ai singoli istituti penitenziari, troviamo tuttora molti casi di sovraffollamento, anche grave. Tra i più preoccupanti, al 31 dicembre 2015, quelli di alcuni istituti di Lombardia, Lazio, Liguria, Puglia, Campania, Sardegna e Sicilia.

 

Alla diminuzione del tasso nazionale di sovraffollamento nelle carceri hanno senz’altro contribuito le riforme introdotte nel nostro ordinamento a seguito della sentenza Torreggiani e altri contro Italia, con la quale la Corte Europea ha condannato il nostro paese per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a causa del trattamento “inumano e degradante” al quale erano sottoposti i detenuti in alcuni istituti penitenziari: celle in cui lo spazio a disposizione di ciascun detenuto era di soli tre metri quadri e impossibilità di utilizzare l’acqua calda nelle docce.

A partire da quella condanna pronunciata all’inizio del 2013, il Consiglio d’Europa ha assegnato all’Italia un anno di tempo (poi prorogato al 31 dicembre 2015) per predisporre rimedi adeguati allo scopo di diminuire il numero dei detenuti presenti nelle carceri.

In particolare, la Corte di Strasburgo ha invitato il nostro paese a prevedere l’applicazione di pene non privative della libertà personale in alternativa a quelle detentive e l’adozione di misure per ridurre al minimo l’impiego della custodia cautelare in carcere.

Il legislatore italiano ha affrontato il problema privilegiando interventi volti a ridurre le presenze in carcere, piuttosto che puntare al potenziamento delle strutture penitenziarie e all’aumento della capienza degli istituti di pena.

La riforma, nel suo complesso, ha seguito tre direttrici. La prima è consistita nella riduzione del flusso di condannati in entrata, attraverso un allargamento delle maglie di accesso di alcune misure alternative e alcuni benefici penitenziari. La seconda è rappresentata dal potenziamento del flusso di detenuti in uscita mediante l’introduzione di una misura straordinaria che consente forti sconti di pena ai condannati che abbiano dato prova di partecipazione al trattamento rieducativo. La terza direttrice è la depenalizzazione di alcune fattispecie di reato attraverso la trasformazione in illecito amministrativo.

I dati che emergono dall’ultimo rapporto del Consiglio d’Europa dimostrano che la strada intrapresa dal nostro paese per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario è ancora lunga e impervia. È necessario proseguire con forza privilegiando riforme strutturali che siano in grado di garantire effetti permanenti piuttosto che limitarsi a gestire sempre e solo l’emergenza. Non lo chiede solo l’Europa, ma anche il senso di civiltà del nostro paese. Forse l’Italia, almeno per questa volta, sembra aver imboccato la giusta direzione.

 

Davide Zampoli

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