Legalità in 2000 parole

libro.jpg

Narra Alessandro Manzoni nella Storia della colonna infame (edita per la prima volta nel 1840 e del cui II capitolo scrive Giuseppe Capograssi: <<E’ da leggere l’intero capitolo, importantissimo per una visione concreta della storia della scienza del diritto>>) che Guglielmo Piazza, commissario di sanità, e Giangiacomo Mora, barbiere, il 21 giugno 1630 vennero denunciati – sulla base dell’isteria popolare scatenata da Caterina Rosa e Ottavia Bono con l’accusa di propagare la peste “ungendo” i muri delle case – senza uno straccio di prova che non fossero le macchie di inchiostro sulle mani del Piazza, appoggiatosi incautamente a muri e porte, di aver procurato la pestilenza in città, attraverso la non provata azione di untoraggio, provocando il conseguente spargimento della letale infezione. Arrestati e sottoposti a tortura, i due innocenti si illusero di uscirne dopo una falsa confessione, ma alla condanna del 27 luglio seguì la morte il 2 agosto. Era l’epoca nella quale il diritto era l’espressione della volontà della tirannide padrona e serva della credulità popolare, e servita untuosamente dal ceto dei dottori della legge, la cui opinione – influenzabile e variabile in virtù delle circostanze e delle convenienze verso i potenti – teneva luogo della certezza del diritto. Si tratta di quelle che Lopez de Oñate avrebbe chiamato nel 1942 insidie pratiche al principio di legalità, contro cui, insieme al Muratori dei Difetti della giurisprudenza e al Filangieri delle Riflessioni sulla Prammatica di Ferdinando IV, aveva lanciato la sua sfida l’illuminismo giuridico milanese – in quel clima culturale che influenzò gli orientamenti del giovane Alessandro Manzoni, che si giovava della cultura giuridica e civile di Cesare Beccaria, Alessandro e Pietro Verri, con cui Manzoni intratteneva legami parentali – che fu la culla di quell’orientamento culturale che contribuì ad infondere vita allo Stato di diritto, in virtù del quale ogni potere e chi lo esercita è sottomesso alla legge  in ambito pubblicistico e in quello privatistico, e nel diritto penale nessuna persona può essere privata della libertà se non sulla base di una legge, della sua corretta applicazione e della sua effettiva applicabilità. Il governo delle leggi era infatti già da Aristotele invocato come superiore al governo degli uomini.

Questa esigenza trova compimento nel grande rivolgimento che ha dato vita allo Stato di diritto inteso – a partire dalla stagione dell’illuminismo giuridico e dal processo di codificazione seguito alla Rivoluzione francese – come obbligo degli organi dello Stato di esercitare il potere nel rispetto assoluto della legge, il cui primato sull’azione della pubblica amministrazione e degli stessi poteri esecutivo e giudiziario è sancito dal potere legislativo dei Parlamenti dell’età contemporanea quale legittima espressione della rappresentanza esercitata dalla sovranità popolare, unica fonte della norma che sconfigge ed elimina l’arbitrio del potere con la logica razionale dell’ordinamento. Esemplare in questo senso èl’art. 12 delle Preleggi del 1942 (Disposizioni sulla legge in generale): <<Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore http://www.brocardi.it/preleggi/capo-ii/art12.html – nota_10044. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato>>.Eppure – anche quando lo Stato di diritto ebbe scacciato le tenebre dell’ignominia forense, dell’assolutismo dispotico manipolatore della legge, delle opinioni asservite dei dottori della legge, finalmente affidando alla certezza della codificazione, dall’origine giacobina e napoleonica, la custodia di una legge certa – l’orientamento giuspositivistico (che ne suggellava l’autorità, finalmente assegnando ad una autorità indiscussa, lo Stato, la custodia) generò un altro e diverso assolutismo (il monismo giuridico), che fomentava nuove insidie teoriche al principio di legalità. Il diritto ridotto alla sola legge dello Stato conobbe nel Novecento la più abietta delle condizioni, come rivelò il processo di Norimberga, dopo che la legalità fu mostrata durante il terzo Reich – contro lo strapotere dello Stato dispotico – come difesa dei giuristi democratici contro il totalitarismo (la continuità della idea della legalità custodita dalla scienza giuridica, che celebra la legalità dei fini del diritto, non della mera forma legale), cosicché occorre ribadire che la legalità è incarnata da opzioni etiche capaci di guidare i principi giuridici (come testimoniava Gustav Radbruch con la sua formula, senza peraltro rifugiarsi nell’indefinibile diritto naturale, già caro ad Antigone), ma anche che la legalità dello Stato di diritto preserva la democrazia anche contro anche le maggioranze che assolutizzino la volontà dei più numerosi o dei più forti. Quale autorità morale vincola alle esigenze del diritto l’azione dei Parlamenti, anch’essi suscettibili di cedere all’arbitrio (e invece esso ancor più sottoposto al principio di legalità) ? Il tema della legge ingiusta (e della resistenza ad essa e al tiranno che la impone) è un capitolo significativo della filosofia giuridica e politica, tanto che, a dare fondamento ad una nuova centralità del diritto (che è più della legislazione in quanto prodotto del pluralismo giuridico delle società democratiche), è proprio la rinnovata evidenza delle Costituzioni al cui rispetto – superando il mero statalismo di matrice giacobina – la legalità è affidata.

Contro il formalismo (ed il legalismo come forma del monismo statalistico) viene pertanto richiamata la necessità di comprendere e poi definire le qualità oggettive che possano garantire la legalità anche nei confronti dei comandi del soggetto politico autorizzato ad emanare la norma, tanto più che la proliferazione delle leggi (spesso originata nel Parlamento da particolarismi e lobbyes, che accrescono il discredito per la politica e per il potere legislativo) mette in pericolo alla radice la certezza, e conseguentemente, con l’inattuazione effettiva delle norme, lo stesso principio di legalità.

Di fronte a tutto ciò proprio il richiamo alla legalità come esigenza prioritaria per le società democratiche appare un ancoraggio morale prima che giuridico-politico, ma non senza nuove ambiguità. Si sono levate autorevoli voci a denunciare <<la petulante sequenza di appelli e cortei che a suo tempo Leonardo Sciascia, con l’intelligenza e la lungimiranza del razionalista disincantato aveva etichettato come professionismo dell’antimafia. Risposta coraggiosa nei confronti dell’intimidazione moralistica delle vestali della legalità>>.La ostentazione delle manifestazioni di omaggio alla legalità (vestali alla ricerca di consensi) rischia di offuscare la reale comprensione di cosa significhi il principio di legalità quale architrave della etica pubblica di un paese e nel contempo del suo livello di civiltà giuridica. La generica esibizione della legalità ha spesso celato l’effettiva noncuranza della legalità sostanziale. Si dimostra insomma del tutto insufficiente la scolastica dichiarazione intesa a perpetuare il principio di legalità in senso stretto. Non bastadunqueaderire formalmente alla legge e al suo comando,  per assicurarne eguaglianza e di certezza, ma, contro il formalismo che evira la sostanza della legalità – riducendola troppo spesso ad orpello di traffici che contraddicono l’esibizione di onestà – occorre onorare la legalità sostanziale.Se dunque il significato dellaLegalitàè legato senza dubbio alla legislazionedi origine statale legislativa e alla affermazione della certezza del diritto, che Lopez de Oñate celebrò dopo gli sconquassi del Terzo Reich – responsabile di aver svuotato e avvelenato dall’interno lo Stato di diritto, incapace, nella rigida formalità della legge nazistacosì come dello Stato rivoluzionario,di garantire la legalità contro l’arbitrio – occorre riempire di nuovo significato il proclamato principio.

Dalla crisi del  modello statalistico e giuspositivistico nasce quindi una nuova legalità, per cui è indispensabile distinguere Legalità formale e Legalità sostanziale, fondando su principi di etica pubblica lo scopo del diritto: ordinare la società è il compito del diritto nella democrazia sentita come limite ad ogni potere, per quanto legittimo, così che la cultura giuridica – cogliendo la effettività della vita del diritto nella sua lotta contro l’arbitrio – storicamente vigili perché la norma e la sua applicazione restino fedeli alla natura del diritto, vincolandone gli scopi.

Ma nuove insidie, non teoriche ma pratiche per usare il linguaggio di Lopez de Oñate a proposito della certezza del diritto, vengono alla legalità dalla attività interpretativa in sede giudiziaria, quando si moltiplicano sentenze nelle quali l’interpretazione creativamente ritiene di poter assorbire la stessa scienza in un nuovo sapere giudiziario, che finisce per accogliere e sancire una suggestiva ma fasulla contrapposizione tra una non meglio definibile esigenza di giustizia  – comediritto di origine sociale la cui applicazione è affidata alla interpretazione di un corpo specializzato ed indipendente sensibile alla pubblica opinione – e la procedura legittima e formale, che assicura a tutti l’esecuzione della legge, benché oggi gravata dal sospetto di uniformismo burocratizzante. Non va infatti con superficialità ridimensionata ogni obbedienza alla legge sotto la categoria del legalismo, in modo tale da giustificare la disobbedienza individualistica alla legge, giacché la legalità è un pacchetto da adottare intero, sia quando se ne fa criterio per respingere le violazioni corruttive, criminali o mafiose, sia quando essa richieda procedure garantiste, l’esibizione per tutti di documenti di identificazione, il pagamento dei trasporti pubblici o della mensa scolastica, o l’osservanza delle regole comuni.

Infatti l’arbitrio(anche sotto apparenza della rivendicazione della legalità)può manifestarsi in diversi livelli: non solo quellotradizionaledel principe, quando si svela tiranno, o quando abusa a beneficio dei titolari delle pubbliche amministrazioni di  risorse comuni, ma anche, più subdolamente, quello  della piazza (o dei clan e delle lobbyes che la movimentano), cosicché l’illegalità ha oggi rappresentazioni diverse: quella della criminalità organizzata che intende contrapporsiall’ordinamento; quella della corruzione delle e nelle istituzioni pubbliche che decide di infrangerel’ordinamento; ed ancor più l’anomia diffusa dei cittadini che scelgono di ignorarel’ordinamento. Criterio essenziale per la pratica della legalità è dunque la trasparenza (che è anche condizione dell’esercizio della democrazia), che non consente di nascondersi dietro la privacy invocata a tutela di arbitrii di qualsiasi genere. La conoscenza della legge e la sua evidenza pubblica (nulla poena sine lege) costituiscono la condizione dell’applicazione del principio, giacché ogni limitazione della libertà personale o della sfera della riservatezza individuale può avvenire nello Stato di diritto solo attraverso le forme pubbliche della legge, in nome della trasparenza e dell’eguaglianza, senza conflitti con il diritto alla riservatezza, poiché proprio la pubblicità impedisce sia gli abusi che i privilegi.

Ha senso parlare ancora di legalità nell’età dell’incertezza ? Proprio quando entra in crisi la certezza del diritto, diventa più urgente definire i caratteri del principio di legalità rinnovato. Smarrito l’ancoraggio alla codificazione (che risente del discredito della politica come fonte della normazione), è prevalsa la giurisdizione, fino a lambire l’invasività di una superlegalità costituzionale che dilata i confini della legalità nell’interpretazione. Vale allora l’avvertimento elevato da Friedrich von Hayek, consapevole della legalità in senso stretto, nel 1960:<<il governo della legge presuppone la più rigida legalità. Ma la legalità non gli è sufficiente. Se una legge desse alle pubbliche autorità l’illimitato potere di agire a loro piacimento, tutti gli atti di queste sarebbero legali, ma non sarebbero certo sotto il governo della legge. Il governo della legge, pertanto, è qualcosa di più del costituzionalismo: esige che tutte le leggi si conformino a certi principii. Perché costituisce una limitazione imposta a tutta la legislazione, il governo della legge non può essere esso stesso una legge nel medesimo senso delle leggi approvate dal legislatore>>.

In questa stessa prospettiva va osservata la dilatazione dell’influenza della giurisprudenza delle Corti dell’Unione Europee, responsabili peraltro della introduzione di forme di meticciamento giudiziario con l’inserimento surrettizio di norme di diversi ordinamenti nei singoli ordinamenti nazionali, resi subalterni alle pronunce delle Corti europee, in un’orgia di pangiudizialismo. Se la giurisdizione (europea) conseguisse una supremazia di fatto nei confronti della legislazione, capovolgendo i criteri originari dello Stato di diritto, e affermando l’assunto che l’interpretazione vada considerata superiore alla stessa legge, verrebbe messo a rischio il principio di legalità sostanziale . Ma così si rischia di tornare alle opiniones doctorum (dei nuovi dottori europei, modello ed esempio per i creativi dottori dei singoli sistemi giudiziari) che si pretendono superiori alla legge stessa, precipitando nuovamente nell’incertezza, mentre invece il principio di legalità – pur soggetto ai venti forti e alle sfide della storia che richiedono costante vigilanza nello sforzo di ridefinirne il significato – affonda le sue radici nel principio che vuole tutti eguali di fronte alla legge. Se una definizione si voglia offrire della legalità, essa può giovarsi del senso ad essa offerto da Giuseppe Capograssi, secondo il quale <<il diritto salval’azione>>, custodendone il più vero significato per la vita dei singoli uomini che costruiscono faticosamente il mondo comune del diritto e della storia.

Giuseppe Acocella