Le “dimensioni” della legalità: note per una discussione

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Le “dimensioni” della legalità: note per una discussione
Stefano Sepe ed Ersilia Crobe
Nel corso del XX secolo – ha scritto Eric Hosbawn – “il mondo è diventato un campo operativo unitario” : ciò impone una seria riflessione sulle conseguenze che il processo di globalizzazione ha da tempo prodotto anche sul principio di legalità. Non sembra oramai più possibile definire fenomeni, attività, interessi, relazioni in maniera “bidimensionale” o dicotomica poiché la realtà socio-politico-economica si compone di complessità e multidimensionalità delle quali si deve tener conto.
La definizione, la gestione e il controllo di policies con proiezioni sempre più “globali” impegnano i poteri pubblici in una sfida di interpretazione della complessità del tempo che viviamo. Tale esigenza euristica trova un punto di impaccio nella circostanza che – come ha sottolineato lucidamente Sabino Cassese –  “la globalizzazione si scontra con il fatto che l’organizzazione dei pubblici poteri non è globale” . Tale asimmetria di fondo tra “realtà materiale” dei processi sociali, politici ed economici e sostanziale immobilità delle istituzioni politico/amministrative è fonte di scelte politiche inadeguate.
Così l’adeguamento degli attuali assetti organizzativi delle istituzioni appare ineludibile per fornire risposte a società in costante mutamento: emerge in tutta la sua urgenza la necessità di gestire più livelli di governo, di orientare l’organizzazione verso sistemi reticolari (innescata dallo sviluppo delle nuove tecnologie), ridisegnando l’azione delle istituzioni amministrative, che dai tradizionali paradigmi costruiti dall’alto verso il basso devono operare sulla base di reti orizzontali . Si rende indispensabile la ricerca di approcci diversi dal passato per la risoluzione di problemi socialmente rilevanti.
Dalla capacità di risposta delle istituzioni a tale complessità dipende anche la possibilità di implementare efficacemente politiche pubbliche tese a promuovere il principio di legalità.
La cultura della legalità rappresenta – come è noto – l’effettivo fondamento dello stato di diritto: i moderni ordinamenti giuridici si fondano su un corpo precostituito di norme generali e astratte che i cittadini, ma anche le stesse istituzioni, sono obbligati a rispettare. Una codificazione che contribuisce a contenere libertà individuali indeterminate che – ove non controllate – divengono elementi di disturbo del “giusto” modo di vivere in società. In pratica, regole necessarie ad evitare alterazioni dell’ordine sociale.
Il principio di legalità non rileva soltanto in senso giuridico, poiché esso è elemento essenziale di ogni aspetto delle società organizzate: la legalità è un complesso di “componenti” e si realizza solamente quando tali elementi appaiono nella loro totalità ed integrità. Quando, cioè vi è la contemporanea manifestazione in tale principio di tutte le sue manifestazioni: la dimensione giuridica, la dimensione sociologica, la dimensione economica e, non per ultima, quella culturale.
Della dimensione giuridica si è sommariamente accennato dianzi. La dimensione sociologica ha molteplici sfaccettature. In via generale l’elemento simbolicamente nodale resta la “soglia di accettazione” di fenomeni che – in un dato contesto sociale – si suole definire legali. La gamma nella quale si articola tale soglia è praticamente infinita. Valgano qui due soli esempi. Si può facilmente rilevare come la rappresentanza degli interessi si trasforma sempre più spesso in forme di prevaricazione degli interessi più forti e/o strutturati su quelli più deboli. Tale fenomeno trova alimento in una politica debole  che ha come rispecchiamento una società “molle”. Analogamente, anche per la carenza di discipline giuridiche adeguate, il carattere legale/illegale delle modalità di uso dei social network resta arduo non soltanto da normare ma anche da collocare nelle sue dimensioni sociologiche.
La dimensione economica della legalità si lega strettamente  (sempre al netto delle problematiche di tipo giuridico) al radicale rovesciamento dei rapporti di forza tra produzione e finanza. Su questo tema resta aperto il problema nodale di riflettere quali siano i veri parametri della democrazia economica nel nostro Paese e, in generale, nelle democrazie mature.
La dimensione culturale, infine, rinvia a quell’insieme di comportamenti, saperi, abitudini che si sedimentano all’interno di una società in ogni momento storico. Dimensione che permea tutte le altre anche senza emergere necessariamente come dimensione a sé stante.  In via generale, si può ipotizzare che l’assioma diritto uguale legalità sia da ripensare profondamente. Ciò a partire dal fatto che non sempre il diritto (inteso come norme positive) si traduce in legalità (intesa come sostanziale equità delle regole giuridiche).
Tale complessità, per essere opportunamente gestita deve avvalersi di strategie integrate, di un disegno organico di azione. Il solo intervento dello stato nazionale (in particolare quando l’intervento è occasionale, non coordinato come nel nostro Paese) non può bastare; ma non basta neanche l’attività delle organizzazioni internazionali, poiché “lo spazio internazionale globalizzato, a differenza del tradizionale spazio internazionale, non è più abitato solo dagli Stati ma appare costituito “in rete” e abitato stabilmente da altri soggetti […] che sembrano stringere gli Stati nelle maglie di un assetto di reciproche e sempre più estese interdipendenze” . Anche sul piano interno, avanzando sempre più pressantemente la richiesta di maggiore inclusione e partecipazione ai processi decisionali pubblici – la gestione della legalità deve essere connotata da “collaborazione” tra vari soggetti interessati (soggetti politici, cittadini, ma anche il mondo d’impresa).
Entro la categoria più generale di legalità rientra anche la dimensione etica, che rileva su un piano soggettivo ed è definibile come una generale correttezza di atteggiamenti individuali o pubblici. In particolare, si usa distinguere tra etica pubblica ed etica privata, riguardando la prima il bene della collettività e del gruppo, cosiddetto bene comune e la seconda, per sua natura particolaristica e individualistica, il bene privato. In tal senso, l’etica pubblica può essere intesa come “somma algebrica” delle individualità private – nel loro specifico ruolo di funzionari pubblici (sia politici che amministrativi).
Se il principio di legalità dell’attività dei pubblici funzionari trova fondamento in alcuni principi costituzionali, l’etica – rientrando in una dimensione soggettiva – non è oggetto specifico di norme in Costituzione. E’ verosimile ritenere che tale omissione sia retaggio, insieme, dello spettro dello “stato etico” – evocato da Hegel e che è causa della greve eredità culturale del secondo dopoguerra – e della tradizione giudaico-cristiana, risultato di un allontanamento dal concetto di etica di matrice greca, connaturato al vivere dell’individuo nella polis.
Opportunamente è stato osservato al riguardo “l’ordinamento democratico non può né disinteressarsi, né imporre una etica pubblica, ma deve tuttavia promuoverla, assumendola come un valore essenziale sociale e costituzionale di responsabilità personale, integrato nel sistema dei valori costituzionali, e conferendo ad essa la forma, variamente atteggiata, del dovere civico” .
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