Il cittadino spaesato nell’agone giustizia di Giuseppe Tesauro

Periodicamente i media ci propongono qualche vicenda giudiziaria, specie penale, che suscita sconcerto o almeno sorpresa. Spesso la protagonista è una donna e dunque alimenta in misura maggiore la reazione del comune cittadino. Penso ad una sentenza che ne riforma un’altra riducendo magari a metà la pena per il colpevole di un delitto che sembrava meritevole, per il giudice della fase precedente, di una pena molto vicina all’ergastolo: semplicemente perché l’uomo, che aveva da poche settimane una relazione con la vittima, sarebbe stato in preda ad una «tempesta emotiva». Penso alla sentenza resa da un collegio interamente femminile che non ha considerato stupro un rapporto con una donna non bella e «mascolina», non importa se non consenziente. Ma penso anche a quelle imputazioni gravi che non resistono al secondo o al terzo grado di giudizio per qualche clamoroso errore o anche al riesame che già in primo grado sconfessa il lavoro investigativo durato anche più di qualche settimana o mese o perfino anni; o a quei permessi durante i quali il «bravo» detenuto commette un ulteriore delitto. E che dire poi di una sentenza del giudice delle leggi, che ha ritenuto non irragionevole una norma che vieta la chiamata in un dipartimento universitario di un parente entro il quarto grado o di un affine di uno dei professori, ma tace sulla chiamata di un coniuge.

In breve, il coniuge sì, ma il fratello del coniuge no: eccentricità del legislatore distratto che ben poteva essere risolta con una lettura intelligente già del giudice comune.

Il cittadino si domanda dove sia la tanto celebrata certezza del diritto. Alcuni di questi episodi possono collegarsi fisiologicamente ai diversi esiti dovuti ai tre gradi di giudizio e dunque ad una diversità che va salutata con favore da chi ritiene che sia riuscita a correggere una decisione clamorosamente eccentrica. E’ questo il caso, ad esempio, della pronuncia della Cassazione di riformare la sentenza cui accennavo prima della Corte di appello di Ancona che, nel 2017, aveva assolto due giovani sudamericani accusati di aver violentato quattro anni prima una ragazza peruviana a Senigallia. La singolare pronuncia aveva fatto scalpore, in quanto aveva rilevato che l’aspetto «mascolino della vittima … come la foto del fascicolo processuale appare confermare» fosse rilevante per giudicare uno stupro. Per fortuna, la Cassazione ha ribaltato completamente il percorso motivazionale e dichiarato che l’aspetto fisico della vittima non è un elemento rilevante ai fini della valutazione di atti di stupro e che la sentenza di appello era fondata dunque su elementi «irrilevanti in quanto eccentrici rispetto al dato di comune esperienza rispetto alla tipologia dei reati in questione».

Altri episodi, tuttavia, si collocano in un quadro complessivo del sistema giustizia che presenta qualche criticità, da sempre censurate anche fuori dai nostri confini, non solo quanto all’irragionevole durata dei processi; e che meritano qualche riflessione più generale.

Anzitutto, le leggi sono pezzi di carta, consegnati in elenchi di vario tipo (codici, raccolte varie, Gazzette Ufficiali e altro), dove il giudice trova la soluzione dei casi che gli sono sottoposti. Il giudice è chiamato a far vivere quei pezzi di carta rispetto ad un caso concreto, proiettandone il senso anche in un contesto di valori più alto, magari costituzionale e non solo, alla ricerca eventualmente di un parametro di legittimità ulteriore rispetto alla legge che possa aumentare il tasso di tutela dei diritti dei singoli. Questa operazione intellettuale non è sempre agevole, anzi lo è oggi sempre meno rispetto al passato, per il numero enorme, diciamo pure eccessivo, di leggi e leggine scritte magari in fretta, troppe volte su spinte in senso lato populiste, comunque in un gergo non facilmente comprensibile, integrate con interventi successivi spesso non coerenti, che richiedono una ricerca certosina e affannosa del comma giusto e non abrogato, così come integrato e modificato e come risulta da più testi non sempre coordinati in una versione in vigore. Il tempo vola, le interpretazioni opinabili non sono soltanto possibili, ma probabili. La tentazione del distacco più o meno voluto e trasparente dalla norma è forte, talvolta nasconde un protagonismo umano, frutto di delusioni e illusioni insieme, di chi soffre la pesantezza di una burocrazia fuori misura, di un apparato carcerario che non regge il confronto con Paesi di media civiltà, dell’insufficienza degli strumenti di supporto e di conforto per l’esercizio della funzione strettamente giurisdizionale, della pressione di una classe forense a sua volta afflitta dalle criticità più disparate. A volere infine tacere dell’effetto diretto e immediato di questo scenario sull’economia.

C’è poi il limite dell’insofferenza per il quotidiano, per la routine, che porta a desiderare un intervento non solo distaccato dalla norma ma frutto di un momento emotivamente significativo, un atto di ribellione magari inconsapevole rispetto alla normalità, che però si traduce in uno scoop giornalistico che fa discutere per giorni, certo non di più, nei bar del quartiere o nei corridoi dei palazzi di giustizia. Il fenomeno, beninteso, è fortunatamente solo limitato ad una minima eccezione rispetto alla serenità e all’equilibrio della grandissima maggioranza dei magistrati. Il giudice è comunque un essere umano, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, le emozioni, le sensibilità, i momenti con pensieri a volte lontani dalla realtà costruita dall’immaginario collettivo, ma che sono vicini all’ego di ognuno di noi. C’è, infine, la consapevolezza che le esigenze e gli interessi del corpo sociale hanno una velocità di aggiornamento e di innovazione molto maggiore rispetto sia al legislatore, sia a chi dell’opera di quest’ultimo è chiamato a fare applicazione, sì che anche il distacco dalla norma scritta, se non si esagera, non è necessariamente un male assoluto. E qui mi permetto una citazione di Calamandrei dalla nota arringa per Danilo Dolci del 30 marzo 1956 dinanzi ai giudici penali di Palermo: «Vi sono tempi di stasi sociale in cui il giudice può limitarsi ad essere il fedele secondo del legislatore, il seguace che l’accompagna passo per passo, ma vi sono tempi di rapida trasformazione in cui il giudice deve avere il coraggio di esserne il precursore, l’antesignano, l’incitatore». Tornando agli esempi ricordati di vicende penali, c’è chi teme un ritorno al delitto d’onore con tutto quanto ne segue in termini di attenuanti e di pene; c’è chi – a difesa dei giudici – sostiene correttamente che è necessario leggere la sentenza nella sua integrità per coglierne il percorso argomentativo e non fermarsi ad un solo frammento. Nondimeno, lo sconcerto del cittadino comune resta ed è di sicuro maggiore per i casi di violenza di genere, che per molti meriterebbe almeno un inasprimento della pena: per «qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale o che colpisce le donne in modo sproporzionato», secondo la formula della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, stipulata ad Istanbul il 23 maggio 2011e in vigore dal 2014.

(Il Mattino 23.04.2019)