La trasformazione delle pretese in diritti nasconde sempre una dose di violenza perché ad ogni diritto corrisponde un obbligo da soddisfare e l’imposizione di un obbligo comporta inevitabilmente una coercizione. Il diritto obiettivo, che raccoglie e dà tutela alle pretese, non è mai mite, perché sempre e comunque legittima l’esercizio della forza. Nella vicenda della nave Diciotti bisogna distinguere i diritti dalle pretese. Il diritto alla vita è un diritto innato ed è universalmente riconosciuto e tutti (il mondo intero, gli Stati, i singoli sono tenuti a salvaguardarlo); il diritto ad essere accolti è, invece, una pretesa a fronte della quale non c’è un obbligo se non nella misura in cui il singolo Stato, con proprie leggi o con leggi pattizie, lo riconosca. Soltanto in questo caso e nella misura in cui la pretesa sia trasformata in diritto sussiste un obbligo di accoglienza degli Stati e dei suoi rappresentanti istituzionali. In mancanza, alla pretesa non corrisponde alcun obbligo giuridicamente sanzionabile, così che la non accoglienza può essere sindacata sul piano della morale o della politica. Insomma, quando un nostro Ministro dispone di “non accogliere” lo straniero, ossia colui che non ha i diritti di cittadinanza, emette un provvedimento che non viola alcun diritto se non nei limiti in cui esistano disposizioni che impongono l’accoglienza. E’ vero, l’art. 10 della nostra Costituzione riconosce il “diritto d’asilo secondo le condizioni stabilite dalla legge” e questo diritto è regolato dalla l. n. 39 del 1990 sullo stato di rifugiato. Ma è evidente che il diritto d’asilo è ben diverso dalla pretesa ad essere accolti e non è un diritto di tutti, in quanto presuppone l’esistenza di situazioni speciali alle spalle del rifugiato. Di conseguenza, è difficile ravvisare nella decisione del Ministro una privazione della libertà personale, in cui si concreta il sequestro di persona. La sua è una decisione che equivale a quella con cui si ordina di respingere lo straniero che vuole entrare nel nostro territorio o che dispone il rimpatrio del clandestino. Si potrebbe ravvisare piuttosto un abuso di potere per avere impedito o ostacolato il diritto dello straniero alla tutela giurisdizionale per ciò che riguarda la sua possibile posizione di rifugiato, pur nella consapevolezza che le attuali dimensioni del fenomeno migratorio rendono difficile, complesso e scarsamente effettivo l’accertamento delle condizioni previste dalla legge nel rispetto delle nostre regole processuali. La legge sullo stato di rifugiato, infatti, può funzionare se il numero degli immigrati è ragionevolmente modesto, entra in affanno quando i numeri crescono troppo. Sono probabilmente queste le considerazioni che avevano indotto i P.M: a chiedere di archiviare il caso. Il nostro sistema semiaccusatorio (un ibrido che faremmo bene ad eliminare) prevede, tuttavia, che il Tribunale possa andare in contrario avviso. L’art. 8 l. cost. n. 1 del 1989 dà al Tribunale competente il potere di fare il processo, per così dire, d’ufficio (in barba ai principi di un qualsiasi sistema accusatorio), sempre che la Camera competente dia l’autorizzazione a procedere. E la Camera non può valutare la fondatezza dell’ipotesi, ossia non può sostituirsi al giudice nello stabilire se il Ministro ha commesso o, meglio, possa avere commesso il reato ipotizzato, ma deve soltanto stabilire se il Ministro ha commesso il fatto “per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”. In altre parole, il deputato non potrà o non potrebbe votare in base alla convinzione che il Ministro non ha sequestrato nessuno; dovrà invece valutare se il Ministro ha (verosimilmente) commesso il reato ipotizzato “per il preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”. Ci sono tutti i presupposti per un corto circuito istituzionale che sarebbe opportuno evitare (e, purtroppo, ciò accade sempre più di frequente). Non solo. Si forniscono argomenti succulenti per la speculazione politica. Il Ministro, atteggiandosi ad eroe che offre il suo scalpo in favore della gente, lucrerà i consensi da quella parte (sempre più numerosa) della popolazione che è convinta che la sua azione politica serva ad assicurare sicurezza. La parte di governo, che ha professato e continua a professare un’ideologia giustizialista, si troverà tra l’incudine (non mettere in pericolo il Governo) e il martello (venire meno al suo impegno di assoluto rispetto dell’operato della magistratura). L’opposizione si troverà spiazzata tra garantismo, che la indurrebbe a votare contro l’autorizzazione, e giustizialismo (in disparte il calcolo politico) per cui l’operato dei giudici non va ostacolato. E’ difficile non vedere le ricadute “politiche” della decisione dei giudici ed è altrettanto difficile negare che qualcosa nel rapporto tra politica e giustizia nel nostro Paese non funziona a dovere.
<<Corriere della sera. Corriere del Mezzogiorno>>, 22 febbraio 2019